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4 DOMANDE A MARINO NIOLA, Intervista a Antropologo Alimentare, Giornalista e Scrittore

Il Mondo del Latte

4 DOMANDE A MARINO NIOLA

15-06-2015

Antropologo alimentare, giornalista e scrittore


Vegetariani, vegani, macrobiotici, crudisti, sushisti, naturisti, no gluten, carnivori, fruttivori, localivori e, non ultimi, lattofobi. Sono alcuni dei gruppi in cui si dividono i consumatori in base al loro approccio al cibo. Gli stili alimentari sono, di fatto, diventati i nuovi classificatori dell’umanità globale; uno strumento di unione e divisione, identificazione e contrapposizione, prescrizione e proibizione, ma, soprattutto, un dispositivo di normalizzazione dell’anima attraverso la disciplina del corpo. Quali che siano la loro natura, gli intenti e le finalità, c’è un filo che li unisce: il bisogno di dare e avere delle regole, dei modelli di cura di sé e di azione sulla realtà. Insomma, le diete sono un po’ i trattati del comportamento di questo tempo senza certezze e senza sicurezze. E un po’ i decaloghi laici di una secolarizzazione orfana dei suoi dèi e in cerca di nuove devozioni.
Questa in estrema sintesi la tesi sostenuta in “Homo Dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari” (edito da Il Mulino), ultima fatica di Marino Niola, docente universitario, scrittore e giornalista, esperto di antropologia alimentare.
Alla faccia delle diete, leggendo queste pagine si fa una scorpacciata di ironia, ma i temi trattati sono seri: la ricerca del modello nutrizionale virtuoso è diventata la religione globale con il maggior numero di proseliti.
Ciascun credo alimentare si ritiene l’unica via per la salvezza, verso quell’immortalità non più dell’anima ma del corpo. O almeno di quel suo succedaneo salutistico che chiamiamo longevità. Il prezzo qual è? Privazioni, castighi, astinenze, penitenze. La demonizzazione di molti cibi, l’esaltazione della magrezza.
Quasi superfluo ricordare come latte, latticini e formaggi siano da tempo stati fatti salire sul banco degli imputati di questo tribunale dell’Inquisizione culinaria, se non addirittura già condannati alla massima pena. Le teorie sulla nutrizione più seguite li definiscono non necessari o addirittura dannosi per la salute, provocando un progressivo allontanamento da uno degli alimenti più naturali e importanti per la dieta umana.

1. Professor Niola, nel suo libro parla della “mania” o moda delle diete come di una religione senza dio, dopo che il mondo secolarizzato ha smarrito il senso del divino. Siamo nell’epoca della tecnologia, dei controlli, della sicurezza alimentare, eppure torniamo al trascendente, all’irrazionale. Che succede?
Perché c’è un sentimento del complotto molto diffuso nella società contemporanea, che da un lato ha perso il senso classico del divino, del credere in un dio, salvo poi affidarsi al primo santone o al primo erborista che propone un nuovo rimedio, una nuova cura, un nuovo regime alimentare che promette, se non la vita eterna, almeno una longevità assicurata. Questo perché c’è insicurezza. Le persone non si sentono tranquille e si chiudono in loro stesse: il corpo diventa l’estrema difesa, la corazza nella quale rifugiarsi. E quindi il nostro involucro di carne e ossa assurge a elemento da preservare a tutti i costi: ecco spiegata la spasmodica ricerca di ciò che non fa male, arrivando a trasformare quello che mangiamo in farmaco. Prendiamo per esempio il boom che sta avendo il cibo kasher un po’ in tutto il mondo, ma soprattutto negli Stati Uniti: lo acquistano soprattutto non ebrei, che si fidano di più della certificazione di un rabbino rispetto a quella delle authority alimentari. Si sovrappone sicurezza a salvezza dell’anima, catapultandosi in un medioevo tecnologico che crea regimi alimentari a metà tra ascetismo e agriturismo.

2. Se siamo arrivati alla situazione che lei descrive nel libro, ci sono dei colpevoli? Perché è così difficile rendere popolare un regime alimentare equilibrato, composto da tutti i cibi nelle giuste proporzioni, come per esempio la dieta mediterranea?
Beh, gli ultimi venti o trent’anni sono stati quelli della diseducazione alimentare. Si è sottratto tempo al cibo, alla convivialità, al gusto di alimentarsi con la scusa della mancanza di tempo, della velocità, dell’efficienza. Ecco perché siamo arrivati al punto in cui il cibo è visto come un nemico, e si lanciano fatwe contro latte e uova, formaggi e carni rosse. Bisogna ritrovare uno spazio per l’alimentazione nella quotidianità di ognuno di noi, serve più tempo per gustare quello che si mangia e anche per la preparazione dei piatti. Sia chiaro: mangiar sano è cosa buona e giusta, ma attenzione a non farne una malattia. Altrimenti si rischia l’ortoressia. Ovvero l’ossessione del mangiare corretto, ortodosso. È la più recente tra le patologie alimentari di un Occidente che ha smesso di temere la fame e vive l’abbondanza come una colpa. Bisogna tornare a mangiare di tutto nelle giuste quantità.

3. Latte e formaggi sono spesso etichettati come cibi dannosi per la salute in base a luoghi comuni che la rete non fa che amplifi care fi no a farli diventare “virali”. Nel capitolo “Integralismi” parla di “creduloni superinformati”. L’aumento delle conoscenze anziché favorire un atteggiamento più razionale sta provocando un ritorno massiccio a credenze e superstizioni. È possibile secondo lei invertire questa tendenza e se sì come?
Internet è la vox populi del terzo millennio. È un brusio incredibile e non sempre gli algoritmi dei motori di ricerca fanno galleggiare i siti più seri, quelli più affidabili e dove le informazioni contenute arrivano da fonti verificate. Anzi, è vero il contrario. Sappiamo un po’ di tutto, ma la realtà ci sfugge da ogni parte. È il  paradosso della civiltà dell’informazione. L’aumento delle conoscenze e i progressi della tecnologia, anziché favorire un atteggiamento più razionale, stanno provocando un ritorno massiccio di credenze, luoghi comuni, rumors, mitologie. Superstizioni in versione 2.0. Che si accompagnano a una diffusione crescente del sospetto generalizzato. Nessuno si fida più di nessuno. E meno che meno degli scienziati, degli esperti, delle istituzioni. Che si tratti degli Ogm, dei vaccini, della sicurezza alimentare, del biologico, dell’uso di coloranti e pesticidi, il minimo comune denominatore è una sindrome da complotto che provoca una sfiducia crescente verso tutte le autorità, scientifiche o politiche. Per provare ad arginare le teorie complottiste credo ci sia un unico rimedio: alfabetizzare la rete.

4. Le industrie alimentari sono sempre più viste con diffidenza dai consumatori. Eppure preparano cibi standard, controllati e garantiti, perché sottoposti a rigide verifiche e processi di lavorazione moderni. Che consiglio si sente di dare alle imprese del settore per riavvicinarsi ai consumatori? Se lei fosse un produttore di latte o di formaggi, su cosa imposterebbe la sua politica di comunicazione?
Se è vero che a volte le industrie alimentari lanciano messaggi ambigui o poco trasparenti per aumentare gli acquisti dei loro prodotti, è anche vero che da quando mangiamo cibi industriali la durata media della vita si è allungata, e di parecchio. Questo è un concetto che andrebbe spiegato meglio ai consumatori. Inoltre, le grandi marche produttrici di latte e derivati dovrebbero impegnarsi a portare avanti un’operazione di trasparenza: organizzino visite guidate nei loro stabilimenti, illustrino a chi compra i loro prodotti da dove arrivano le materie prime e i dettagli del ciclo di produzione. Mettano sotto i riflettori tutta la serie di norme e controlli ai quali un cibo è sottoposto prima di arrivare sugli scaffali di un supermercato. Non abbiano timore a dichiarare che un prodotto contiene questo o quell’additivo e spieghino a cosa serve: spesso a garantire che gli alimenti giungano sulle tavole in perfetto stato di conservazione. È un lavoro lungo e che richiede impegno, ma, credo possa dare buoni risultati nel tempo.




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