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Il Mondo del Latte

4 DOMANDE A: PAOLO GIBELLO

16-12-2015

Mid market industry leader e Presidente Deloitte&Touche


Abbandonare i campanilismi e fare squadra, cercare una dimensione adeguata per competere sui mercati internazionali, anche con l’aiuto delle istituzioni, insistere nell’innovazione di prodotto, combattere la piaga dell’Italian sounding e mantenere le produzioni in Italia, per caratterizzare con forza quello che si vende all’estero. Questo il menu del pasto perfetto per le imprese del settore lattierocaseario, declamato da uno “chef” del food management che in un’ipotetica guida otterrebbe senza dubbio tre stelle.
Partner di Deloitte dal 1996, dove ha ricoperto la carica di amministratore delegato e audit function leader dal 2004 al 2009, Paolo Gibello è dal 2010 mid market industry leader e presidente di Deloitte&Touche.
Tra i primi promotori del progetto “Food&Agriculture” di cui è anche responsabile nazionale, fa parte del Comitato dei garanti del master in Agribusiness&Food management del Gruppo 24 Ore con Università di Parma. Dottore commercialista, ha maturato una rilevante esperienza professionale nell’ambito della revisione contabile di bilanci di banche, società finanziarie e fondi comuni di investimento.
Per quanto riguarda più da vicino il settore lattiero-caseario, è uno degli autori della terza edizione del libro “Il settore agroalimentare. Scenari e percorsi di crescita sostenibile” edito da Slow Food.

1 . Dottor Gibello, l’export di formaggi sta crescendo in modo importante in molti Paesi. Sono stati superati i 2,5 miliardi di fatturato e anche quest’anno i volumi sono in crescita. Quali sono secondo lei i punti di forza e i punti deboli del settore?
Il principale punto di forza è la straordinaria biodiversità dei formaggi italiani, una caratteristica unica, che non riscontriamo neppure nella tanto blasonata produzione francese. Sfido chiunque, inoltre, a ricordare il nome di un formaggio tedesco. Eppure i tedeschi esportano più di noi. La ragione di questo stato di cose è l’indice della nostra debolezza che risiede in un export ancora inferiore rispetto alle potenzialità che offrono qualitativamente i nostri prodotti, causato principalmente dalle catene della grande distribuzione organizzata, che, non facendo capo a gruppi nazionali italiani, non  valorizzano in maniera appropriata il nostro territorio e i suoi cibi.

2. Che ruolo deve avere il “sistema paese” per aiutare e accompagnare le imprese nel loro percorso di internazionalizzazione?
L’internazionalizzazione è un processo divenuto ormai inevitabile e le nostre istituzioni hanno il dovere di supportare le aziende, stringendo accordi, offrendo assistenza. Tuttavia questo non basta: anche produttori e trasformatori devono fare la loro parte, prima di tutto abbandonando le logiche campanilistiche e poi imparando a fare filiera. Insomma: aiutarsi tra vicini per far crescere il business.
A tal proposito, le cito l’esempio virtuoso di due consorzi conosciuti a livello mondiale, quelli del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano: la loro forza è stata quella di riunire piccoli e grandi produttori e promuovere due prodotti di alta qualità che oggi sono apprezzati a livello internazionale.
Concludo poi con quello che reputo un ostacolo all’internazionalizzazione che è necessario superare: l’Italian sounding. La contraffazione del made in Italy nel settore agroalimentare è un fenomeno che attualmente muove un giro d’affari pari a 30 miliardi di euro, una cifra solo di qualche miliardo inferiore al valore delle esportazioni di prodotti italiani autentici. Il danno economico in termini di mancati ricavi potenziali è ingente, ma volendo vedere il bicchiere mezzo pieno è anche indice del desiderio di prodotti tricolori in giro per il mondo.

3. Sul grande mercato mondiale c’è spazio per tutti o solo per le aziende maggiormente strutturate?
Negli anni Ottanta era valido il motto “piccolo è bello”, oggi questa affermazione non è più così calzante. Se vogliamo affrontare sfide globali, la dimensione aziendale diventa un valore qualificante. L’importante è innovare il prodotto e stare al passo con i nuovi mercati senza dimenticare la tradizione: in Italia ci sono tante aziende medio-piccole con produzioni interessanti e anche molto innovative, attente ai trend di consumo e a  consumatori sempre più esigenti.
Piccoli produttori stanno creando innovazione di prodotto per soddisfare le esigenze nutrizionali della clientela (per esempio con i formaggi delattosati) o offrire referenze in chiave multiconfessionale con certificazione Halal e Kosher.
Questa capacità di innovazione deve però essere accompagnata da una articolazione commerciale che consenta di rendere profittevoli gli investimenti fatti.

4. Salvo poche eccezioni, sono pochi i brand aziendali italiani del lattiero-caseario famosi nel mondo. Ma abbiamo molti marchi collettivi. Questo aiuta o rallenta la crescita? E si può crescere mantenendo in Italia la produzione o la delocalizzazione, – anche parziale – è un “male” necessario?
Vista la dimensione spesso contenuta delle nostre aziende, ritengo che in questo momento la comunicazione collettiva incentrata sul prodotto sia un plus che permette maggiore riconoscibilità all’estero e di conseguenza una maggiore valorizzazione delle aziende di trasformazione. Per quanto riguarda la delocalizzazione, come abbiamo sottolineato nella nostra ultima pubblicazione “Il Settore Agroalimentare. Scenari e percorsi di crescita sostenibile”, le imprese agroalimentari italiane devono essere contestualizzate nel territorio in cui realizzano i propri prodotti, perché è il territorio stesso a garantire la qualità del made in Italy. Riuscire a mantenere con successo la produzione locale rappresenta poi un segnale di fiducia che può favorire anche la ripresa economica nazionale.
 
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