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Il Mondo del Latte

4 DOMANDE A: DANIELE FORNARI

25-11-2014

Economista nel settore agroalimentare


Daniele Fornari è un economista molto noto nel settore agroalimentare. Dopo la laurea in Economia all’Università di Parma ha cominciato la sua carriera universitaria come ricercatore all’Università Bocconi. Durante la sua vita professionale si è occupato soprattutto di trade marketing, materia alla quale ha dedicato libri, articoli di approfondimento, convegni e un Laboratorio, al quale aderiscono le principali aziende industriali e commerciali del mercato del largo consumo e che è un punto di riferimento per il confronto tra gli studi di marketing e la prassi manageriale. Tre anni di direzione del Cermes - il Centro di ricerca su Marketing e Servizi dell’Università Bocconi - è ora alla Cattolica di Piacenza, dove insegna nei corsi di marketing e dove ha fondato Rem-Lab, il centro di ricerca sul retailing e sul trade marketing della stessa Università. Fornari è certamente uno dei massimi esperti di relazioni di filiera e ha un pallino fisso: migliorare la qualità dei rapporti tra industria a distribuzione. Per farlo – a suo avviso – è necessario confrontarsi di più, superare alcune pregiudiziali, sforzarsi di capire le ragioni dell’altro per lavorare con maggiore sintonia.

 
Professor Fornari, sconti, promozioni e volantini hanno acquisito sempre maggiore importanza, ma non sono amati dalle imprese di produzione, che si sentono obbligate a partecipare a proprie spese a campagne di comunicazione anche di singoli punti vendita, senza una vera strategia di crescita condivisa. Cosa ne pensa e cosa possono fare le imprese per far sentire di più la loro voce?
Latteggiamento delle imprese di produzione nei confronti delle attività promozionali negli ultimi anni è cambiato. Se in passato la presenza nei volantini promozionali delle marche industriali, soprattutto leader, era molto contrastata e subìta dai fornitori come un vincolo imposto dalla distribuzione, oggi il volantino è diventato uno strumento di commercializzazione fondamentale anche per le imprese industriali. Al punto che la quota di vendita media che queste aziende realizzano con la presenza nel volantino è superiore al 40%, con punte che arrivano al 70-80 per cento. Ne deriva che, a differenza del passato, le imprese industriali partecipano attivamente alle attività promozionali proposte dalla distribuzione, con l’obiettivo di sostenere i propri volumi di vendita e di accrescere le quote di mercato. Tutto ciò non significa, tuttavia, che l’attività promozionale risulti sempre efficace. Anzi, sempre più spesso, il grado di efficacia delle promozioni si è ridotto, penalizzando i conti economici sia della distribuzione che dell’industria. Per questo industria e distribuzione dovrebbero ripensare e condividere meglio le loro strategie promozionali, innovando le modalità e i contenuti di queste strategie che spesso non generano vendite aggiuntive e distruggono solo “valore”. Gli studi che abbiamo fatto stanno dimostrando che il volantino promozionale è sempre di più un “medium di comunicazione” da utilizzare per comunicare non solo l’offerta di convenienza, ma anche i “valori” distintivi dei prodotti industriali e dei punti vendita commerciali. Per ottenere questo risultato è necessario che industria e distribuzione rivedano i paradigmi tradizionali e convenzionali delle politiche promozionali.
 
Salvo poche eccezioni, i consumi sono in calo, la spesa alimentare diminuisce e il solo canale performante sembra essere il discount. La sensazione che ci trasferiscono le nostre imprese è che si parli solo di prezzi e poco o quasi mai di qualità. Cosa fare per spingere la ripresa dei consumi?
È vero, si tratta di sensazioni giuste. La focalizzazione sul prezzo dipende da svariati fattori che possono essere differenti nei diversi mercati. In alcuni casi la centralità del prezzo è dovuta alla forte maturità dei prodotti. Quando i prodotti sono maturi, i consumi non crescono e diventa fisiologico utilizzare solo la leva del prezzo. Per uscire da questa situazione è necessario avere un maggior orientamento all’innovazione di prodotto e di marketing. In altri mercati, invece, l’orientamento prevalente al prezzo esprime l’incapacità delle imprese di comunicare la distintività, anche qualitativa, dei propri prodotti. Non è sufficiente parlare genericamente di qualità; è necessario – più nei confronti dei consumatori che dei distributori – spiegare le dimensioni della qualità dei prodotti. Per fare questo, tuttavia, è necessario sviluppare una maggiore cultura di marketing.
 
Le relazioni di filiera non sono un problema solo italiano, visto che perfino la Commissione europea ha ritenuto necessario istituire un Forum di alto livello dedicato alla materia e ha concluso che le pratiche scorrette sono abbastanza diffuse in Europa. Ma allora ha ragione l’industria, quando accusa la distribuzione di voler fare la parte del leone?
Alcuni distributori, approfittando del loro maggiore potere contrattuale, hanno assunto atteggiamenti vessatori nei confronti dei produttori più deboli o comunque con un ridotto potere di mercato. Ciò ha comportato, in alcuni casi, comportamenti negoziali scorretti. Va anche detto, però, che negli ultimi anni si è registrato un miglioramento dell’etica nei rapporti di filiera, grazie alla consapevolezza che le pratiche sleali finiscono per penalizzare la qualità delle relazioni di fornitura. Personalmente sono convinto che stiamo andando verso una configurazione duplice di tali relazioni. Da un lato ci sono i produttori e i distributori consapevoli che per vincere le sfide del mercato è fondamentale consolidare rapporti di fornitura affidabili, trasparenti e corretti. Dall’altro ci sono i produttori e i distributori che pensano, sia da una parte che dall’altra, ad avere relazioni negoziali solo opportunistiche, poco strategiche e caratterizzate da comportamenti, a volte, eticamente discutibili.
 
Le private label rappresentano una quota crescente del mercato. Ci sono aziende industriali fortemente specializzate in questo segmento, ma anche tante grandi imprese di marca producono ormai con marchio della distribuzione. Non c’è il rischio che nel medio periodo le piccole imprese perdano completamente la propria visibilità e diventino semplici contoterzisti della Gdo? E che tra qualche anno gli scaffali offrano meno prodotti, con i grandi marchi da un lato e le private label dall’altro?
Certo il rischio esiste, e, in alcuni casi, è già concreto. Ma quale alternativa possono avere le imprese che corrono questo rischio? L’unica possibile, alla luce dei cambiamenti e dei trend che stanno caratterizzando i mercati e i consumi, è quella di sviluppare strategie di marca in grado di costruire e comunicare la diversità dei propri prodotti. Senza questa caratterizzazione si rischia di soccombere e di accrescere il proprio grado di sostituibilità. Per molte piccole imprese, quindi, la marca commerciale non è solo una minaccia, ma anche un’opportunità. E questo vale ancora di più per quelle imprese industriali che, non avendo una propria forza di marca, sono in grado di diventare dei copacker affidabili e non facilmente sostituibili per le marche dei distributori. In ogni caso va ricordato che negli ultimi anni i distributori hanno dato più spazio ai piccoli produttori di prodotti tipici, con l’obiettivo di differenziare i propri assortimenti e di migliorare la fedeltà dei consumatori ai loro punti di vendita. Ribadisco: il problema è concreto, ma per le piccole aziende innovative e distintive c’è lo spazio per ridurlo.

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