Attualità
INTERVISTA A MASSIMILIANO DONA
10-02-2014
Quattro domande al segretario generale dell'Unione Nazionale Consumatori, la più antica organizzazione consumerista italiana.
Unc è stata in prima linea perché l’Italia si dotasse di un Codice del consumo e di una norma sulla class action. Come commenta i primi anni di applicazione delle nuove regole?
Il Codice del Consumo ci è invidiato in tutta Europa dove, ad eccezione di alcuni Paesi, manca una organizzazione compiuta della disciplina di consumo. E non potete immaginare quanti consumatori consultano queste norme online proprio grazie al fatto di poterle rintracciare più facilmente: da parte nostra, per agevolare questa presa di contatto con il Codice abbiamo lanciato un sito tematico (www.codicedelconsumo.it) e una app per iPhone/iPad.
Per quanto riguarda la class action il quadro è meno entusiastico: come è noto lo strumento processuale è stato via via depotenziato per la preoccupazione di un uso irresponsabile dell’azione risarcitoria. Il risultato, però, è che oggi molte iniziative sono naufragate per colpa dell’inefficienza della class action italiana. E lo dico pur avendo un primato del quale andiamo molto fieri: nel 2013 l’Unione Nazionale Consumatori è stata la prima associazione (e credo ancora l’unica) a vincere una class action in Italia.
Alcuni sostengono che le associazioni di impresa sono lobby da cui stare alla larga. Altri le ritengono portatrici di interessi legittimi con cui confrontarsi in modo casomai duro, ma leale. Qual è la sua idea in proposito? C’è qualche esempio di collaborazione positiva?
Alla soglia dei sessanta anni di attività, l’Unc ha maturato una visione laica e dialettica della relazione tra rappresentanti dei consumatori e rappresentanti delle imprese.
Ritengo imprescindibile un serio investimento di fiducia in questo rapporto a condizione che ciò avvenga nel rispetto dei ruoli: l’impresa deve produrre profitti e farlo in modo trasparente e rispettoso dei diritti della clientela; il rappresentante dei consumatori deve verificare la correttezza delle dinamiche commerciali, proporre aggiustamenti e, in mancanza di riscontri, deve segnalare i comportamenti scorretti alle autorità competenti, fino a ricorrere al giudice nei casi più gravi.
Purtroppo però le cose non vanno sempre così: talvolta osservo miei colleghi che, senza neppure conoscere adeguatamente il settore di riferimento, lanciano denunce e campagne solo per fare uno scoop. Ma non mancano anche certi manager innamorati di se stessi che non riescono a guardare più complessivamente al mondo circostante.
Dovendo fare qualche esempio, mi limiterò a dire che settori più maturi, come l’alimentare, rappresentano spesso occasioni di collaborazione anche molto apprezzate dal nostro pubblico di riferimento.
Tutt’altro scenario, purtroppo, troviamo nel mondo della net economy, dove troppo spesso incontriamo imprese “digitali” esageratamente aggressive e trascurate verso l’utenza.
Tanti chiedono di introdurre nuove norme di etichettatura, che impongano l’indicazione dell’origine del prodotto e degli ingredienti su tutti i prodotti alimentari. Il Parlamento italiano ha anche emanato alcune leggi, sistematicamente bocciate dall’Europa. L’industria sostiene che le caratteristiche di buona parte dei prodotti made in Italy non dipendano dalla provenienza degli ingredienti, ma dalla loro qualità e chiede di lavorare in un mercato comunitario con leggi uguali per tutti. Qual è la posizione di Unc?
Il dibattito sul made in Italy rappresenta uno dei grandi equivoci del nostro tempo: ogni giorno è pubblicizzato un nuovo prodotto con solenne accompagnamento di bandiere tricolori o diciture più o meno fantasiose. I consumatori sono disorientati e non mancano proteste vibranti ai nostri sportelli, segno di una crescente sfiducia verso il concetto di made in Italy. Da consumerista ritengo che la tracciabilità delle produzioni sia un valore, ma solo in termini di trasparenza. Mi spiego: salvo rare eccezioni (e penso a prodotti per i quali la provenienza è sinonimo di peculiarità organolettiche, come ad esempio l’olio d’oliva), l’origine della materia prima non dovrebbe orientare le scelte. Tuttavia apprezzerei un po’ più di trasparenza da parte delle aziende perché il grano ucraino o il tonno giapponese sono buoni fino a quando una centrale nucleare non comincia a fare i capricci. Un esempio banale per dire che a questo punto diventiamo tutti molto più sensibili rispetto alla provenienza.
Detto questo, però, mi aspetterei più serietà anche da certe imprese che invece sembrano esageratamente interessate alla comunicazione sul “made in”: vogliamo smetterla di proporre il latte di mucche italiane?
Qual è la battaglia per la tutela dei diritti dei consumatori che ricorda con maggior orgoglio? E quale quella che le ha lasciato un po’ di amaro in bocca?
Come dicevo, una delle gioie più grandi è stata vincere la prima class-action italiana: molti miei colleghi delle altre associazioni avevano annunciato l’avvio di procedimenti in passato, ma solo una è arrivata per prima. Non è la prima volta che apriamo una nuova via e, lasciatemi dire, ne vado molto orgoglioso!
Avverto l’amaro in bocca, invece, quando vedo certa comunicazione pubblicitaria irresponsabile: dalle pasticche per il mal di testa alle bibite gassate, passando per alcuni alimenti ultracalorici, non sono ancora riuscito ad ottenere che l’Autorità Antitrust sanzioni (insieme ai messaggi ingannevoli) anche gli spot che spingono a consumi esagerati. E’ un fenomeno dilagante che trovo immorale e per questo continuerò a battermi.